Donne e lavoro, la fotografia in Italia del Gender Policies Report

8 Marzo 2023

L’occupazione cresce, ma non intacca il divario di genere. Nonostante abbia toccato quota 60,5% nell’ottobre del 2022.

Il Presidente INAPP, Sebastiano Fadda: “La situazione femminile non migliora”

 

L’occupazione cresce, ma non intacca il divario di genere. Nonostante abbia toccato quota 60,5% nell’ottobre del 2022 (il valore più alto dal 1977), i tassi di occupazione tra uomini e donne rimangono distanti (rispettivamente 69,5% e 51,4%) con un gap di genere del 18%.

 

Il tasso di disoccupazione femminile è del 9,2% contro il 6,8% degli uomini, divario che aumenta per quanto riguarda i giovani tra i 15 e 18 anni con tassi del 32,8% per le ragazze e del 27,7% per i ragazzi.

 

Questo è quanto emerso dal Gender Policies Report 2022, la pubblicazione a cura dell’INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) che ogni anno fotografa le differenze di genere nel mondo del lavoro.

“Malgrado la crescita – dichiara Sebastiano Fadda, Presidente INAPP – restano immutati i gap di genere nel mercato del lavoro e le criticità strutturali che determinano una bassa partecipazione femminile. Occupazione ridotta, prevalentemente precaria, part time e in settori a bassa remuneratività o poco strategici. Dunque, la situazione femminile, pur migliorata in termini assoluti, peggiora in termini relativi.

 

“Se confrontiamo questi dati con quelli del 2021 vediamo che i tassi di occupazione crescono di più per gli uomini che per le donne (+1,7% contro +1,4%) e che la disoccupazione cala in misura maggiore per gli uomini (-1,2% contro -0,9%). L’inattività diminuisce per entrambi, ma per le donne cala solo quella legata allo studio e alla formazione mentre invece cresce quella legata a motivi familiari”.

Part time e debolezza rafforzata

I dati relativi al primo semestre del 2022 confermano la specificità femminile del part time come forma di ingresso nel mondo del lavoro. Su tutti, i contratti attivati alle donne il 49% è a tempo parziale contro il 26,2% maschile. In particolare, è a part time oltre la metà (51,3%) dei contratti a tempo indeterminato delle donne. Mentre tipicamente femminile è la condizione di debolezza rafforzata, ossia la presenza di due fattori di criticità associati:

  • forma contrattuale precaria
  • tempo parziale

Se consideriamo soltanto il lavoro a tempo determinato, che occupa il 38% dei contratti delle donne e il 43% di quelli degli uomini, si nota che della prima quota il 64% è part time e della seconda lo è solo il 32%. 

Nel 2021 l’incidenza delle donne occupate che lavorano part time è superiore rispetto agli uomini di circa 15 punti percentuale in Europa e di più di 22 punti percentuale in Italia.

Anche i dati sulla conciliazione vita-lavoro evidenziano un mercato del lavoro italiano più rigido della media europee. Le donne, sia in Europa che in Italia, godono di minore flessibilità rispetto agli uomini. Una difficoltà che tocca principalmente le lavoratrici laureate, per cui tali indicatori sono al di sopra la media UE.

 

Ma soprattutto le lavoratrici sono meno coinvolte nell’organizzazione degli orari di lavoro: in Italia nel 76% dei casi è il solo datore di lavoro a decidere l’orario di ingresso e uscita dal lavoro, contro una media UE del 57%, rispetto a valori maschili rispettivamente del 68% e del 62%.

Il Gender Policies Report, inoltre, coglie e fornisce esempi concreti di un nuovo fenomeno. Una nuova forma di discriminazione, ovvero quella legata dall’uso degli algoritmi da parte delle piattaforme digitali. Strumenti, infatti, che risentono del sistema di significati, idee e giudizi e con essi stereotipi e pregiudizi di chi li ha ideati e costruiti. Ne deriva che nel mercato del lavoro digitale si riproducono esattamente gli atteggiamenti discriminatori che si riscontrano nei lavori tradizionali.

 

“Le menti che programmano gli algoritmi non sono diverse da quelle che, normalmente, scelgono di assumeere, promuovere, remunerare di più, licenziare e così via. – ha evidenziato Fadda – La discriminazione algoritmica può dunque ugualmente agire e, in maniera implicita, produrre condotte discriminatorie di genere sul lavoro. Risulta inderogabile la necessità di approfondire il legame tra società digitale e discriminazioni, nelle sue evidenti connotazioni di genere”.

 

Infine, il report analizza le caratteristiche del lavoro domestico, un settore lavorativo in costante crescita e che ad oggi rileva circa 2 milioni di famiglie quali datori di lavoro e una crescente domanda, particolarmente volta a sostenere le esigenze di cura di persone anziane o malate (circa il 74% della domanda). I dati mostrano una netta prevalenza della componente femminile tra gli occupati, per il 60% straniera, con un’età media in progressivo aumento e compresa tra i 45 e i 59 anni.

 

Un settore questo caratterizzato da un’ampia quota di lavoro sommerso. Si stima che sette lavoratori su dieci (68,3%) non abbiano alcuna formalizzazione contrattuale. Inoltre, si registra un 34,3% di lavoro grigio, una forma di lavoro parzialmente in regola. Irregolarità maggiori si registrano nel baby sitting (51,8%) e nelle regioni del Sud Italia.

 

Più in generale, è bene ricordare che il tema della parità retributiva rappresenta delle sfide costanti, nell’ambito delle politiche di genere e rappresenta un aspetto che, sotto il profilo normativo, ha ricevuto sia a livello europeo che nazionale una forte attenzione istituzionale.

Il posto fisso non basta più

“È il tempo di agire! L’anno scorso eravamo ancora colpiti dagli effetti della pandemia, per questo i risultati della survey 2022 sono evidenze che in un certo senso si potevano giustificare, ma che non possiamo più ignorare con i nuovi dati 2023”. Ad affermarlo è Elga Coricelli, Co-Founder dell’associazione Ricerca e Felicità.

“Bisogna orami rendersi conto che il tema della felicità come meta-competenza del benessere dei lavoratori italiani non può più aspettare. È fondamentale prendere coscienza di questo cambiamento in atto e concretizzare politiche per creare maggior benessere per tutti e limitare il più possibile la migrazione di talenti all’estero. Quello che rischiamo ogni giorno è che un lavoro in sede estera risulti più attraente sia in termini di offerta che in termini di benessere lavorativo”.

Paradossalmente, nel 2022, secondo una nota redatta dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, si è rafforzata la crescita delle assunzioni a tempo indeterminato. Sono stati creati oltre 410mila posti di lavoro stabili, mentre gli impieghi a termini sono rimasti stazionari. Risulta evidente la sicurezza economica e l’impiego a tempo indeterminato, fino a qualche tempo fa agognati da qualsiasi lavoratore italiano, ora non bastano più per essere felici.

 

Il posto fisso non è più sacro. Oggi, a spingere le persone a dimettersi da un lavoro sicuro e a scappare all’estero sono fattori più profondi e meno materiali, in cui anche il trattamento economico ha un peso relativo.

“Come abbiamo detto la self awarness, la coscienza di se stessi, è la base della felicità – racconta ancora Elga Coricelli – . Il lavoratore dovrebbe prediligere un’organizzazione in linea con i propri valori e un lavoro che gli permetta di applicare i propri talenti, perché così lavorerà meglio e sarà più felice”.

Scarso riconoscimento dei meriti e senso di appartenenza in forte diminuzione

Tra le cause della sempre più diffusa voglia di cambiare professione figurano lo scarso riconoscimento dei meriti e la conseguente diminuzione del senso di appartenenza all’azienda: entrambi i valori decrescono per ogni categoria generazionale dal 2022.

 

“L’individuo vede sempre meno riconosciuti i propri meriti all’interno del contesto lavorativo, conseguentemente anche il senso di appartenenza viene a mancare”, questo è quanto afferma Elisabetta Dallavalle, Presidente dell’associazione Ricerca Felicità. Un malessere generalizzato, legato alla scarsa valorizzazione professionale e alla volontà, dopo la pandemia, di poter lavorare in modo più agile e “a misura d’uomo”.

 

I risultati dell’Osservatorio Felicità BenEssere arrivano in un momento di particolare fermento per il mondo del lavoro, dominato dal dibattito sulla settimana corta. Dopo il successo ottenuto dalla sperimentazione in Inghilterra e in altri paesi, anche in Italia l’ipotesi della settimana lavorativa di 4 giorni potrebbe essere vagliata dal Governo.

 

Per concludere, il malessere sul posto di lavoro in Italia può avere cause e spiegazioni differenti ma risulta chiaro come sia necessario rivedere i modelli organizzativi nell’ottica di una maggiore qualità di vita. “Con questa survey – continua Dallavalle – vogliamo aiutare le aziende e i manager a comprendere le problematiche principali e capire dove attuare i cambiamenti per migliorare la condizione dei lavoratori del nostro paese”.

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